C’erano anni in cui bastava un pallone per riempire le giornate, un coro sugli spalti per scaldare il cuore, e un sogno da inseguire per sentirsi vivi. Per la gente di Caserta, il 1991 non fu solo un anno di sport: fu l’anno della rinascita, della passione che esplode, del riscatto di un’intera città. Fu l’anno della Casertana.
Era il 2 giugno. Lo stadio Pinto traboccava d’amore: 15.000 persone, un unico battito, un unico colore. Rossoblù ovunque, negli occhi, nelle bandiere, nei cuori. Bastarono 90 minuti per rompere le catene dell’attesa lunga vent’anni. La Casertana travolse il Monopoli 3-0 e tornò in Serie B. Ma quella partita fu solo l’ultimo capitolo di una stagione epica, forgiata dal sudore, dalla determinazione e da un senso d’appartenenza che andava oltre il calcio.
Il merito fu anche di un uomo speciale: Adriano Lombardi. Subentrato in corsa dopo due sconfitte iniziali, seppe dare anima e coraggio a una squadra che sembrava disorientata. La sua impronta fu immediata, la sua leadership silenziosa ma potente. Sotto la sua guida, la Casertana non fu più solo una squadra: diventò un simbolo, un’idea, un popolo in marcia.
Ogni partita era una battaglia. Ogni vittoria, una piccola rivoluzione. Salvatore Campilongo metteva il pallone in rete con la fame di chi vuole spaccare il mondo. Luca Bucci, tra i pali, sembrava avere mani fatte d’acciaio e intuizioni d’artista. A far da colonna vertebrale a quella formazione c’erano uomini solidi, determinati, spesso silenziosi ma fondamentali: il capitano Serra, anima della difesa, e tanti altri che componevano un gruppo unito, affamato, irripetibile.
Quella Casertana era forte, sì. Ma soprattutto era vera. Era fatta di volti sudati, ginocchia sbucciate, urla in spogliatoio e silenzi di concentrazione. Era fatta di gente che veniva allo stadio con la radiolina all’orecchio e il cuore in gola, perché ogni domenica sembrava un capitolo di un romanzo scritto col sangue e la fede.
Quando il sogno si avverò, Caserta impazzì. Le strade si riempirono come per un carnevale eterno. Gli abbracci non bastavano a contenere la gioia. I clacson sembravano orchestrati da un direttore invisibile. C’era chi piangeva e chi rideva, chi non ci credeva ancora e chi sapeva che quel giorno lo avrebbe raccontato ai figli, ai nipoti, per tutta la vita.
In quello stesso anno, anche la JuveCaserta trionfava nel basket, conquistando uno storico scudetto. Caserta diventava, per un attimo, il centro dello sport italiano. Ma il cuore pulsante era lì, in quei gradoni del Pinto, tra tamburi, fumogeni e mani alzate. Era nella Casertana, che non solo tornava in B, ma insegnava che la fede può superare ogni ostacolo.
Caserta 1991 non è una semplice data: è un emblema. È la dimostrazione che nulla è impossibile, che i sogni – se condivisi – diventano realtà. È la voce di una città che ha urlato al cielo e, per una volta, il cielo ha risposto.
E ancora oggi, tra le vie della città, basta incrociare uno sguardo, una sciarpa, una vecchia foto per sentire quel brivido. Perché certe emozioni non muoiono mai. Restano. E volano. Come i Falchetti, quel giorno d’estate, nel cielo limpido di Caserta.